“In principio Dio creò il cielo e la terra. (…) Dio disse: “Sia la luce!”. E
la luce fu. Dio (…) chiamò la luce giorno e le tenebre notte. (…) E Dio
disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza”. (…)
Così furono portati a compimento il cielo e la terra e tutte le loro schiere.”
Genesi, 1,1 – 2, 1

 

Ogni giorno compiamo una molteplicità di azioni. E, a ben guardare, molte di queste possono essere fatte solamente pronunciando delle parole: con il linguaggio possiamo influenzare, ordinare, offendere, condannare, rompere amicizie, stringere accordi, sposarci. Ad esempio è capitato a tutti di abbandonare un’idea dopo essere stati persuasi da un amico convincente. Dopo la sentenza pronunciata da un giudice si viene condannati, o assolti, mentre uno “scusa” al momento giusto può far dimenticare quanto detto in un precedente litigio. Un “sì” pronunciato da una coppia in una chiesa, davanti ad un sacerdote, non descrive semplicemente cosa si fa in un matrimonio ma crea tra i due un profondo legame, di cui d’ora in poi dovranno tenere conto.

Quando parliamo, in altre parole, facciamo accadere delle cose; le conseguenze di queste “azioni linguistiche” sono valide tanto per noi che le persone che coinvolgiamo, per le nostre relazioni con loro e per i contesti in cui operiamo.

I filosofi del linguaggio Austin (1962) e, successivamente, il suo allievo Searle (1973) sostengono che il linguaggio sia un’azione e non solo per analogia: esso può produrre degli effetti unicamente attraverso l’utilizzo delle sue componenti, cioè i segni linguistici scritti o verbali. Spesso, infatti, le parole non descrivono un’azione ma servono a porla in essere, producendo delle conseguenze nella realtà; ad esempio dicendo “Mi scuso”, “La condanno”, “Ti avverto” chi proferisce l’enunciato mette effettivamente in atto le azioni di scusarsi, condannare, avvertire; anzi, compiere queste azioni è pronunciare queste parole.

Nel suo famoso libro “How to do things with words” (trad. it. “Come fare le cose con le parole”), Austin afferma che ogni espressione linguistica rappresenta un atto, in quanto equivale ad un impegno o ad un’azione: ogni “dire” è anche “fare”. Viene così a delinearsi la teoria degli atti linguistici, caratterizzati dal fatto che, come suggerisce il temine stesso, possiedono lo status delle parole e i privilegi dell’azione.

Ma in che modo le parole hanno un rapporto con la realtà? Come possono dei suoni vocali, di per sé effimeri, cambiare il mondo delle persone?

La spiegazione di Austin è che quando si parla si compiono contemporaneamente tre atti. Il primo, quello locutorio, è l’atto di dire qualcosa: ad esempio, “ti do la mia parola” è l’emissione di certi suoni costruiti e assemblati in un certo modo e dotati di un certo significato all’interno di una lingua.

Con l’atto locutorio viene eseguito anche un atto illocutorio, ovvero quello che si compie nel dire qualcosa, nell’usare le parole: nell’affermare “ti do la mia parola” si fa una promessa. Secondo Austin, ciò è possibile perché l’atto illocutorio soddisfa e si attiene ad una procedura convenzionalmente accettata che rende la frase condivisibile da tutti gli interlocutori.

Infatti è solo all’interno di un contesto culturale e normativo condiviso che un reciproco “sì” può unire in matrimonio, o che una promessa diventa una questione d’onore, da salvaguardare con la vita, piuttosto che “qualcosa” che può essere rimangiato o dimenticato in fretta.

È proprio il contesto socio-culturale e la situazione particolare in cui viene proferita che rendono un’espressione come “Non andare” una richiesta, un ordine o una supplica: ciò che di volta in volta rende tali queste parole è qualcosa connesso al tono di voce, all’enfasi con cui le si pronuncia, l’intenzione del momento (la sua forza illocutoria).

Infine, mediante il dire qualcosa si compie anche un atto perlocutorio, cioè che produce degli effetti più o meno intenzionali su sentimenti, pensieri e azioni di chi parla o sente. Esso corrisponde agli effetti che l’azione mediata dal linguaggio ha sulla realtà e coincide con le conseguenze del dire qualcosa. Ad esempio promettendo si può persuadere l’interlocutore ad avere fiducia, ma anche suscitare in lui delle aspettative di lealtà e onestà.

Secondo la teoria degli atti linguistici non sono le parole in sé che compiono le azioni, ma il parlante che le sceglie e le pronuncia; chi parla, cioè, si impegna in ciò che dice. L’impegno, tuttavia, non può essere solo personale, ma deve venire adottato anche da altri, che siano un’unica o poche persone o l’intera società civile. Ad esempio affermare ”Lei è ora dottore in medicina” non equivale semplicemente ad emettere determinati fonemi; se a pronunciare queste parole è il presidente di una commissione di laurea all’interno di una sede formale di discussione di tesi, la persona a cui questi si rivolge diventa effettivamente laureata. A questo punto, non conta se ciò che viene detto sia vero o falso, ma le conseguenze che ciò è in grado di produrre: questo tipo di asserzione, in quanto atto linguistico, istituisce di fatto ciò di cui parla.

È chiaro che non è la proclamazione in sé che fa acquisire d’un tratto le conoscenze richieste a un “dottore in medicina”; le cose, le persone e lui stesso non mutano all’improvviso. Eppure l’enunciato pone in essere un’azione e comporta delle conseguenze sul piano della realtà soggettiva ed oggettiva della persona cui viene rivolto e del suo tessuto sociale. Tanto è vero che il neo-laureato si sente davvero tale e comincia a pensare a che cosa fare ora che gli è stato conferito questo titolo. Da questo momento, d’altra parte, gli diventa possibile accedere a determinati posti di lavoro e ambienti sociali: anche gli altri gli riconoscono il nuovo status.

In ultima analisi, la teoria degli atti linguistici porta l’attenzione sulla responsabilità che, come parlanti, custodiamo rispetto le nostre piccole e grandi azioni linguistiche: usando le parole, infatti, ognuno si assume un impegno nel creare parte della propria realtà, personale e sociale.

BIBLIOGRAFIA

AUSTIN, J. L. (1962), HOW TO DO THINGS WITH WORDS, Oxford University Press, Oxford
AUSTIN J. L. (1962), PERFORMATIF-CONSTATIF, in BERA H. (a cura di), 1962, LA PHILOSOPHIE ANALYTIQUE, Editions de Minuit, Paris, p. 271-281
AUSTIN J. L. (1961), PHILOSOPHICAL PAPERS, Oxford University Press, Oxford
HARRE’ R., GILLETT G. (1994), THE DISCURSIVE MIND, Sage Publication, Inc.
SBISA’ M., a cura di (1978), GLI ATTI LINGUISTICI. ASPETTI E PROBLEMI DI FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO, Feltrinelli, Milano
SEARLE J. R. (1973), SPEECH ACTS, Cambridge University Press, Cambridge
SEARLE J. R. (2008), LANGUAGE AND SOCIAL ONTOLOGY, in Theory and Society, 37, p. 443-459

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