Il linguaggio, propriamente detto, è un’attività caratterizzante la specie umana, nonostante che i primati ed altri animali possano sviluppare delle forme di comunicazione altrettanto efficienti sia intra-specie sia per mandare messaggi ad individui di altre specie. Per linguaggio umano si intende la capacità di usare le parole, o i segni, combinandoli in frasi che permettono la comunicazione di concetti con due importanti funzioni: quella comunicativa e quella simbolica o di astrazione. Per svolgere adeguatamente i suoi compiti il linguaggio utilizza un dizionario di simboli memorizzati (le parole), un insieme di regole organizzate in sottosistemi (la grammatica) ed una sintassi con cui le parole sono unite in strutture più complesse (le frasi).
Nelle neuroscienze l’interesse per la capacità linguistica viene fatto risalire all’Ottocento. Centri specifici per diverse funzioni del linguaggio vennero identificate da neurologi come Broca che localizzò un’area motoria nell’emisfero sinistro con sede frontale, deputata alla produzione del linguaggio e Wernicke che identificò l’area sensoriale per la sua comprensione nell’area tempo-parietale posteriore sinistra. Le localizzazioni delle funzioni possono contribuire a spiegare come, da un punto di vista neuropsicologico, le lesioni frontali tendano a dar luogo a deficit nella produzione del linguaggio (afasia espressiva), mentre le lesioni posteriori tendano a generare difficoltà nella comprensione (afasia ricettiva). Fu Wundt a ipotizzare la dipendenza del linguaggio sia da fattori esterni, selezionati dall’attenzione, sia dai processi mentali.
In effetti, uno dei dibattiti che maggiormente hanno appassionato gli studiosi è inerente alla relazione del linguaggio con il pensiero, tanto che molti psicologi si sono interessati ai loro possibili rapporti, discutendo quale delle due funzioni fosse preminente o come si intrecciassero nel dar vita al comportamento intelligente. Il dibattito ha suscitato numerosi modelli esplicativi che posizionano la reazione fra linguaggio e pensiero su di un continuum che va dallo strettamente connessi (praticamente coincidono) al completamente indipendenti (si strutturano e si evolvono in maniera indipendente), passando per il pensiero che condiziona il linguaggio e per il linguaggio condizionatore del pensiero.
Negli anni Cinquanta  un interessante modello proposto da Whorf  espose il concetto che il linguaggio forma le idee fondamentali dell’uomo. I suoi studi si basavano sull’osservazione che è difficilissimo pensare in una lingua che non sia quella di origine e sul fatto che il mondo viene interpretato e classificato in relazione alle potenzialità esplicative e sintetiche della propria lingua. In tal modo il pensiero e la nostra percezione della realtà dipenderebbero dalla lingua in uso nella nostra cultura. Questo modello prese il nome di “relativismo linguistico” a sottolineare come il pensiero divenga “debole” in relazione alle possibilità “forti” che assume la capacità e competenza lessicale. Ma questo vuol dire anche che coloro che non sono capaci di esprimersi adeguatamente non possiedono  pensieri “adeguati”, come gli afasici, ma anche chi ha una bassa scolarità, gli immigrati. Queste considerazioni hanno suscitato la perplessità di coloro che ritengono che non sia poi così lineare la relazione fra linguaggio e pensiero e che richieda ulteriori approfondimenti. Su questo problema si possono considerare almeno cinque ipotesi, oltre a quella del determinismo linguistico di Whorf:

  1. il pensiero è linguaggio (appartenente a Skinner ed ai comportamentisti);
  2. il linguaggio dipende dal pensiero (cognitivismo di Piaget);
  3. linguaggio e pensiero sono in origine indipendenti, cioè hanno sequenze evolutive autonome, ma poi si integrano in un processo di reciproco potenziamento (ipotesi della psicologia sovietica di Vygotskij e Lurija);
  4. il linguaggio è un processo cognitivo, cioè è un pensiero (ipotesi di Bruner e degli psicolinguisti evolutivi);
  5. linguaggio e pensiero sono costruiti socialmente, cioè nella comunicazione (ipotesi di Schafter).

Nel modello comportamentista il linguaggio è considerato un comportamento appreso con il condizionamento operante in cui i concetti sono etichette verbali attaccate ad un insieme di oggetti. Questa teoria potrebbe essere plausibile se il mondo fosse interpretabile come etichettato a priori ed il bambino deve limitarsi solo ad imparare a che cosa sono attaccate le etichette. Secondo queste ricerche si può desumere che la comparsa delle prime parole sia frutto di un complesso e lungo processo propedeutico allo sviluppo del linguaggio sociale, processo in cui il bambino è continuamente stimolato dall’interazione con l’adulto ad apprendere le relazioni fra l’oggetto e l’etichetta che lo definisce socialmente. L’esperienza invece ci porta a considerare che il bambino denomina gli oggetti secondo criteri infantili, che possono essere anche del tutto dissimili da quelli utilizzati nel mondo degli adulti, per non parlare delle modalità astratte di espressione linguistica che non possono trovare riscontro nella mera semplicità degli oggetti fenomenologicamente disponibili all’esperienza.
Nel pensiero di Piaget la tesi sostenuta è che il linguaggio riflette l’abilità e lo sviluppo del pensiero, piuttosto che il contrario. Il linguaggio quindi non è altro che l’espressione verbale (una specie di sistema derivato) della capacità cognitiva raggiunta e dell’astrazione simbolica a cui è arrivato il soggetto. Il legame che consente questa interazione è di tipo genetico e strettamente connesso all’intelligenza che modula la capacità espressiva linguistica, affermando, su questa, il primato dell’attività cognitiva. Gli studi sul linguaggio sono nati dall’attenzione che Piaget aveva rivolto ai bambini: dopo una prima fase dove prevalente è il contenuto egocentrico del linguaggio che il bambino utilizza giocosamente senza intenzioni comunicative, in una fase dai 3 ai 7 anni egli aveva notato una costante diminuzione del linguaggio egocentrico in relazione all’aumentare dell’età. Quindi dalle precocissime, pure e giocose ripetizioni ecolaliche, il bambino arriva ai monologhi, in cui  parla e pensa ad alta voce, e prosegue verso i monologhi collettivi in cui coinvolge gli altri nell’azione pur non manifestando un reale interesse per la loro partecipazione attiva; nello stadio evolutivo finale  il giovane si dirige verso un linguaggio sempre più socializzato connesso ad un pensiero sempre estratto. Il determinismo stadiale piagetiano si ripropone anche nel modello esplicativo del linguaggio che ripercorre, evolvendosi, le fasi che accompagnano lo sviluppo dell’attività cognitiva, rimanendo però come attività derivata e secondaria rispetto a questa.
Secondo i russi Vygotskij (prima) e Lurija (successivamente), invece, il pensiero e il linguaggio nascono e si sviluppano indipendentemente, ma immediatamente, già nel processo di socializzazione primaria, si integrano in un processo di reciproco influenzamento nel quale non esiste nessuna scala gerarchica interna sovraordinata. Gli studi di questi scienziati contribuiscono nel offrire sostegni empirici alla loro tesi di sviluppo indipendente: diverse sono le funzioni iniziali dei due processi (il pensiero esercita la funzione di adattamento, mentre il linguaggio esercita la funzione di comunicazione: la loro integrazione è data dalla condivisa funzione di rappresentazione attraverso cui l’individuo si spiega ed elabora il mondo);  diversa è la competenza  delle due funzioni in relazione all’adattamento (ci si può adattare intelligentemente a delle situazioni senza usare il linguaggio e si può parlare senza verificare che il pensiero sia attivo). Anche nell’interpretazione dello sviluppo del linguaggio i due scienziati differiscono dall’impostazione di Piaget. Se concordano nell’individuare nella ripetizione ecolalica neonatale la prima espressione linguistica, per Piaget il primo linguaggio è solo egocentrico e sparisce cedendo il passo progressivamente a quello socializzato, per Vygotskij  la funzione dell’iniziale linguaggio non è un processo egocentrico, ma si configura come un prerequisito sociale che consente al bambino di entrare in comunicazione con la figura accudente, pur con un impegno quasi nullo delle funzioni cognitive.  Vygotskij spiega che il linguaggio è utilizzato dal bambino non solo come momento giocoso spontaneo, bensì per entrare in relazione con l’ambiente e soddisfare i suoi bisogni primari. Inoltre in Vygotskij, pur nello sviluppo dell’intelligenza, l’iniziale linguaggio sociale non sparisce affatto sebbene divenga sempre più socializzato: rimane sia come un pensare ad alta voce, sia come linguaggio interiore. Secondo Vygotskij c’è una sequenza evolutiva del pensare ad alta voce che va dall’accompagnare genericamente un’azione, quando subentra un ostacolo e successivamente precede e pianifica l’azione stessa. In questa impostazione teorica ritroviamo l’interpretazione sovietica dei rapporti fra pensiero e linguaggio: alla nascita indipendenti,  secondariamente il linguaggio acquista una funzione regolatrice del pensiero e diventa una costruzione sociale, la costruzione sociale viene interiorizzata e diventa individuale: nell’individuo ritroviamo le fondamenta di una socializzazione profondamente condivisa (metafora del rapporto individuo-società):
Gli studi di Vygotskij saranno continuati da Lurija ed integrati con la tradizione pavloviana. Infatti già Pavlov aveva teorizzato il linguaggio come secondo sistema di segnalazione fondamentale e aveva osservato che si potevano utilizzare le parole al posto degli stimoli condizionati, e che, anzi, il condizionamento risultava più durevole e rapido grazie alla funzione regolativa del linguaggio sull’azione: si può dire che la volontà (intesa come darsi degli ordini e delle regole interne) viene interpretata come una costruzione sociale, cioè una regolazione sociale interiorizzata, ed, in questo senso il linguaggio, risulta il “nastro trasportatore” utilizzato per interiorizzare le informazioni culturali, diventa uno strumento di autoregolazione modulato dagli stimoli esterni. Coerente con il modello di stimolo incondizionato (il linguaggio) e risposta incondizionata (il pensiero), per Pavlov, agendo sugli stimoli esterni sarebbe stato possibile far giungere fin dentro l’individuo i valori morali e le regole della società.
Bruner invece riteneva che il linguaggio fosse egli stesso uno dei possibili processi cognitivi, senza per questo ipotizzare che dipendesse dal pensiero o quest’ultimo che fosse subordinato al linguaggio. Questo autore faceva unA differenza fra espressione fonica (linguaggio parlato) e attività mentale (linguaggio pensato) e riteneva che quest’ultimo non potesse essere separato dal pensiero: il linguaggio è oggettivamente verbale, ma anche il pensiero non ha molte altre potenzialità per essere pensato. La loro differenza è quindi nella loro funzionalità: il linguaggio è essenzialmente comunicazione, il pensiero non ha questa ambizione e può benissimo rimanere sepolto in noi stessi senza necessità di essere esternato. Secondo Bruner lo sviluppo del linguaggio avviene attraverso una sempre più marcata differenziazione fra la funzione comunicativa e la funzione rappresentativa interiore: mentre in una fase precoce il bambino risponde istintivamente alle stimolazioni esterne privilegiando il canale comunicativo, man mano che avviene il processo di crescita assistiamo ad un maggior controllo sull’utilizzo del canale in relazione ad una valutazione contestuale progressivamente più efficace.  I tre punti fondamentali della sua teoria illustrano come il pensiero si oggettivi in sistemi rappresentativi (fra cui il linguaggio), come il sistema rappresentativo usato non sia indifferente dall’efficienza del pensiero (e che il linguaggio sia il sistema più efficiente) e come il linguaggio offra all’individuo degli strumenti per pensare, elaborati dalla cultura della sua comunità linguistica (in questo senso, molte sono le affinità con il pensiero vygotskijano).
Il modello di Schaffer integra il modello precedente approfondendo le origini del linguaggio soprattutto in relazione all’interazione madre-bambino. Il processo linguistico, nato come attività soggettiva del bambino, resa oggettiva dall’interpretazione che la madre ne dà, viene restituito al bambino dopo che gli è stato attribuito un significato comunicativo volontario. E’ durante l’interazione che il bambino impara ad attribuire intenzionalità al linguaggio e lentamente interiorizza i meccanismi comunicativi che consentono di utilizzare il linguaggio per relazionarsi volontariamente con l’ambiente. Questo in qualche modo ci riporta al concetto di come il linguaggio ed il pensiero, pur evolvendosi in due processi distinti, si integrino nel processo di socializzazione e in tale processo vengano resi operativi i prerequisiti sociali, cognitivi e comunicativi del linguaggio.
La linguistica generativa è l’indirizzo di studio che più di ogni altro ha influenzato gli studi psicologici sul linguaggio sia ponendo le basi della psicolinguistica e aprendo la strada ad un nuovo modo di affrontare i problemi psicologici in generale e all’impostazione cognitivista.
Chomsky ha pubblicato nel 1957: “Le strutture della sintassi”, un testo fondamentale, dove ha illustrato la sua teoria. E’ partito dalla considerazione del problema della produzione delle frasi: una frase è un enunciato grammaticale, riconosciuto come tale dai parlanti di una lingua.
Chomsky ha osservato che in qualunque lingua non c’è limite alle frasi che possono essere generate: una lingua è un insieme aperto, di cui l’insieme delle frasi pronunciate è solo un piccolo sottoinsieme. Ci deve essere un insieme di regole che i parlanti usano per generare le frasi della lingua: la grammatica. Le frasi generate possono essere con o senza senso e devono essere infinite. Questa osservazione ha condotto Chomsky ha distinguere nettamente la grammatica dalla semantica o studio del significato.
E’ impossibile, secondo Chomsky che una grammatica a stati finiti (che costruisca le frasi in modo sequenziale, da Sx a Dx) renda conto di un numero infinito di frasi quindi la grammatica deve procedere con regole di struttura top-down:

  • per la costruzione di sintagmi e frasi: regole di riscrittura
  • per le trasformazioni grammaticali: regole trasformazionali

Chomsky distinse la competenza dalla esecuzione: la competenza riguarda l’interiorizzazione delle regole di base che formano una lingua e che permettono la produzione e la comprensione, l’esecuzione riguarda l’uso che un individuo fa della lingua, e dipende da fattori cognitivi non linguistici come la memoria, la capacità di comprendere un contesto, etc…Studiare la competenza linguistica, vuol dire capire le regole di una lingua.
Secondo Chomsky questa competenza è in larga parte innata, e l’ha chiamata grammatica universale che è uguale per tutte le lingue. Chomsky ha distinto tra struttura profonda e superficiale: i significati stanno nella la struttura profonda, mentre i significanti nelle struttura superficiale (questo spiega la comprensione delle frasi ambigue: una medesima struttura superficiale per diverse strutture profonde). La comprensione è un processo top-down, la produzione è un processo down-top.
Fonte: (Riassunto da) “Psicologo verso la professione” , P.Moderato-F. Rovetto; ed. Mc Graw Hill

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