Nel linguaggio quotidiano “pensare” è sinonimo di convinzione (“Penso che pioverà), di attenzione (“Pensaci!”), di ricordo (“Pensavo alle vacanze trascorse al mare”), di aspettativa (“Pensavo che il film fosse più bello”), o di considerazione (“Pensavo che potrei cambiare motorino”), in psicologia si intende con pensiero un’attività svolta allo scopo di formare concetti, formulare ragionamenti, arrivare a soluzioni di problemi (problem solving).

La psicologia si è quasi sempre interessata del pensiero. Mentre per Wundt le rappresentazioni mentali potevano essere sia immagini di quanto percepito, sia simboli, al posto di oggetti o idee, successivamente i comportamentisti sostenevano che bisognasse occuparsi soltanto di quanto fosse obiettivabile, escludendo così le immagini mentali dal loro studio: Watson considerava il pensiero esplorabile solo sulla base delle risposte comportamentali, quindi visibili e quantificabili. Il comportamentismo, quindi, limita i propri studi sperimentali all’argomento privilegiato di “problem solving”, ossia la ricerca si focalizza sul comportamento manifesto di soluzione, restringendo l’indagine ai processi di soluzione analitica, con particolare riguardo ai problemi semplici, ben definiti ed evidenti, rispetto ai quali risulta efficace il procedimento “per prove ed errori”.

Wertheimer e la psicologia della Gestalt vedono nel pensiero una sequenza che aderisce alla legge della continuità e alla legge della somiglianza. Per la prima, l’idea di un oggetto tende ad evocare quella di qualcosa che viene spesso percepito insieme; per la seconda, l’idea di un oggetto tende a evocare qualcosa di simile.

Gli psicologi gestaltisti possono essere ritenuti i primi ad indagare sperimentalmente i risultati dell’attività di pensiero cosiddetta produttiva  e con loro nascono ricerche di convalida della risoluzione dei problemi per insight, caratterizzati dal fatto che solo alcuni dei passaggi mentali da compiere sono realmente cruciali per il risultato originale. Una volta che questi passi siano stati effettuati, la soluzione segue molto più rapidamente, sempre che non subentri una fissazione funzionale, nota come effetto Einstellung, che ostacola la soluzione finale.  Il concetto di Einstellung descrive una distorsione funzionale causata da fattori diversi (quantità dei dati, complessità del problema, esperienze precedenti) che concorrono ad intaccare il parallelismo fra pensiero e percezione, tipico dei gestaltisti.

Di fatto nelle ricerche si fa sempre più riferimento a due tipi di problemi: ai problemi risolvibili per insight (difficili da gestire e con troppe influenze di variabili individuali e temporali) ed ai problemi  strutturati con soluzioni per prove ed errori (più facilmente schematizzabili e gestibili sperimentalmente).

L’avvento del cognitivismo che, se da una parte è interpretabile come superamento ed integrazione del comportamentismo, dall’altra è facilmente riportabile alla tradizione strutturalista, frantuma lo stretto nesso deterministico fra stimolo e risposta, accentuando il ruolo dei processi di elaborazione dell’informazione sui quali, inaccessibili all’analisi obiettiva, possono essere formulati solo modelli di funzionamento. Quindi il nuovo obiettivo della psicologia del pensiero diviene quello di mettere a punto tecniche che consentano di evidenziare le strategie individuali di pensiero e di raccogliere dati per un ulteriore elaborazione di modelli. Riprendono così vigore le ricerche sulla logica soggettiva del comportamento di soluzione dei problemi, con rinnovata attenzione ai processi di soluzione sintetica, alle idee improvvise e alle intuizioni, agli eurismi personali e alla capacità di pensiero di rivelarsi produttivo. I cognitivisti sono quindi arrivati alla conclusione che è possibile studiare scientificamente gli eventi mentali, anche quando si tratta di eventi e processi non connessi a comportamenti osservabili.

La realtà ambientale è costituita da una quantità estremamente ricca e mutevole di oggetti ed eventi percettivi. Se l’uomo utilizzasse tutta la sua capacità di registrare differenze e rispondesse a ciascun stimolo in modo specifico (come se fosse unico), sarebbe schiacciato dalla complessità dell’ambiente. L’uomo supera questa difficoltà con un’attività di categorizzazione: esemplifica l’universo dell’esperienza, considerando equivalenti molte varianti della realtà ambientale, e rispondendo ad esse non in quanto uniche, ma in quanto appartenenti a una stessa categoria
Dal livello di categorizzazione percettiva, quindi, si passa per gradi a quello di categorizzazione concettuale.

Nella fase della formazione di concetti diversi oggetti, idee o situazioni (spesso sotto forma di immagini mentali) vengono ordinati e classificati in categorie comuni (concetti), riducendo così le variabili da esaminare ed economizzando sulle risorse. Alcune fra le procedure utilizzate sono:

  1. astrazione: ricerca degli aspetti che due o più soggetti hanno in comune; ciò richiede la selezione di un particolare attraverso cui raggruppare gli elementi da analizzare.
  1. generalizzazione: tende a mettere insieme oggetti simili creando un prototipo con le caratteristiche essenziali per quel concetto. Un esempio della funzionalità è dato dal sub-test della ricerca delle analogie della WAIS in cui si chiede al soggetto di individuare la “sovra-categoria” di appartenenza di due stimoli.

Riprendendo il modello stadiale classico proposto da Piaget, la formazione dei concetti deriva dalla connessione tra biologia, adattamento e conoscenza, e lo sviluppo cognitivo è pensato sotto forma di una successione di stadi ciascuno dei quali prepara il successivo ed è qualitativamente differente al precedente. Secondo questo meccanismo il bambino passa dalla fase iniziale del periodo senso-motorio, al periodo delle operazioni concrete, all’ultimo periodo che è quello delle operazioni formali nel quale si raggiunge lo sviluppo più completo delle strutture mentali e dell’intelligenza.

Di fronte una situazione nuova l’operazione mentale più “economica” consiste nel cercare nell’esperienza passata degli elementi che possano essere trasferiti al caso presente. Un tipo di “transfer” è dato dal ragionamento per analogie.

Non sempre l’esperienza passata ci fornisce casi che possono adattarsi alla situazione che abbiamo di fronte.

Uno dei metodi utilizzati in questi casi è quello del ragionamento deduttivo che consiste nella possibilità di giungere a delle conclusioni a partire da determinate premesse sulla base di un insieme di leggi e di teorie in modo tale da poter formulare delle previsioni e delle spiegazioni. Il problema cruciale è ovviamente quello di definire le premesse in modo corretto ed esaustivo. Il ragionamento induttivo compie un processo diametralmente opposto al precedente: osservando dei fatti particolari si giunge a delle conclusioni che vengono ritenute universali. Se generalizzare è una capacità “generalmente” ritenuta assai positiva, talvolta porta a delle conclusioni assolutamente errate e consente di attribuire qualità o difetti ad eventi o persone senza assolutamente verificarne la consistenza nella situazione specifica. Nei metodi precedenti c’è uno stretto collegamento tra il momento del ragionamento e quello della giustificazione dei concetti che l’hanno prodotto, quasi che proporre un’ipotesi e giustificarla appartenessero allo stesso universo procedurale. A questo stile di pensiero appartiene il metodo abduttivo che proposta da Peirce che ipotizza un’inferenza che percorre un cammino inverso rispetto al sillogismo classico: parte da una certa osservazione e inferisce a ritroso ciò che avrebbe preceduto e che spiegherebbe il fenomeno osservato. Vicino al concetto di abduzione è quello che Ginzburg ha chiamato “paradigma indiziario” che utilizza tracce, piccoli segni, indizi per ricostruire il contesto al quale il fenomeno appartiene.

Argomento particolarmente affrontato da Bartlett e dai cognitivisti è quello delle procedure per cui si arriva alla soluzione di un problema, definendo il problema in modo corretto, esplorando e scegliendo fra le strategie possibili, valutando gli effetti dell’intero processo. Alcune strategie utilizzate sono:

  • a) insight: venne sperimentato da Köhler sugli scimpanzé e consiste nel risolvere dei problemi che richiedono una soluzione indiretta (come prendere una banana con l’aiuto di un bastone); funziona come se avvenisse una ristrutturazione del campo cognitivo relativo al problema. Wetheimer ed i teorici della Gestalt utilizzaro il termine riorganizzazione per definire una nuova ristrutturazione degli schemi concettuali e delle procedure che consentono di arrivare alla soluzione di un problema: si produce quindi un cambiamento qualitativo e non soltanto un cambiamento più o meno quantitativamente rilevante;
  • b) tentativo per prove ed errori: ricerca una soluzione utilizzando tutte le possibilità, come con un puzzle o per un giocatore di scacchi. La successione dei tentativi porta a selezionare le risposte più adeguate, fino a che non viene individuata quella più soddisfacente;
  • c) Il procedimento euristico può essere anche definito, con Tversky e Kahneman,  una sorta si scorciatoia mentale, tale da economizzare le risorse cognitive da utilizzare nella soluzione dei problemi o nella spiegazione di eventi: se questa procedura risulta molto efficace, però può indurre l’individuo ad effettuare e rinforzare tutta una serie di bias cognitivi dovuti alle attribuzioni errate ed agli “effetti” distorsivi di cui tratta la psicologia sociale (effetto alone, effetto pigmalione, effetto caratteristiche dei gruppi sociali,  ecc.).
  • Una di queste euristiche si fa risalire alla disponibilità di determinate informazioni in memoria: sembra cioè che nel valutare una situazione sociale, si tenda ad assegnare la priorità alle caratteristiche che si dimostrano più facilmente accessibili. Un seconda euristica è quella della rappresentatività, per cui, nel formulare un giudizio, molto spesso le persone si basano sulla somiglianza (percepita) con un prototipo, dando eventualmente ragione a chi vede nella “correlazione illusoria” uno dei bias di giudizio e di attribuzione.

Vi sono inoltre diversi tipi e stili di pensiero caratteristici di ciascun individuo. Tra di tipi di pensiero, iniziamo con il pensiero convergente che analizza un problema nei suoi diversi aspetti per convergere verso una  soluzione: è un pensiero deliberato e diretto che viene utilizzato per richiamare alla mente un procedimento o tutti gli elementi necessari per arrivare alla soluzione di un problema. E’ il tipo di pensiero che viene insegnato a scuola ed è ciò che sembra essere misurato dai test d’intelligenza tradizionali: un tipo di pensiero “conservatore” la cui efficacia consiste nell’utilizzare le informazioni già presenti in memoria secondo schemi e processi consolidati.

Il pensiero divergente, invece, si verifica quando i processi mentali, da un punto iniziale seguono strade diverse e arrivano a conclusioni differenti. E’ indiretto ed è quello che si verifica nella tecnica del brain storming o nel pensiero creativo quando si cercano soluzioni nuove ed originali, come Kohler ha dimostrato nei suoi studi sul rapporto fra intensità motivazionale e soluzione dei problemi nei giovani scimpanze.

Kaniza e gli psicologi della Gestalt hanno fornito un notevole contributo alla soluzione dei problemi attribuendo particolare rilevanza all’ interpretazione delle percezioni e suggeriscono una riorganizzazione del problema sulla base di nuove relazioni tra gli elementi. Sulla base di queste considerazioni l’approccio gestaltico distingue due tipi di pensiero:

  • a) produttivo che utilizza una nuova combinazione degli elementi a disposizione: una sua forma particolare è il ragionamento per insight, che potrebbe essere paragonato a quello divergenti;
  • b) riproduttivo che utilizza vecchie soluzioni per problemi nuovi, in modo simile a quanto accade nel pensiero convergente.

Il pensiero prevenuto è caratterizzato da una credenza ed un oggetto al quale si riferisce. Il carattere formale della credenza è espresso dal cosiddetto stereotipo, intendendo per tale una credenza tremendamente semplificata e largamente diffusa fra i membri di una comunità. Lo stereotipo supera i limiti imposti dalle regole del pensiero induttivo offrendo una generalizzazione inappropriata ed errata.  Questo pensiero inoltre è rigido e chi lo possiede (in maniera prevalente) tende a consolidare le acquisizioni già disponibili senza la capacità di esplorare una revisione epistemica delle proprie convinzioni.Nel definire il pensiero prevenuto, occorre tenere presenti due suoi elementi costitutivi: la credenza (una durevole organizzazione di percezioni e di conoscenze intorno a qualche aspetto del mondo dell’individuo) e l’oggetto (un gruppo sociale, etnico o altro).
La credenza è molto semplificata e perciò astratta, molto diffusa tra i membri del gruppo ed applicata nei riguardi dei componenti di un altro gruppo. Vi sono due ordini di spiegazione sulla formazione di tale modalità di pensiero: l’errata operazione induttiva (una generalizzazione condotta non rispettando le regole della conoscenza induttiva) e la falsa operazione deduttiva (affermare aprioristicamente che, se un individuo appartiene ad un determinato gruppo, allora possiede quei caratteri). In questo modo, il pensiero prevenuto evita di essere messo alla prova, o meglio, riesce sempre a trovare conferma.
Il pregiudizio potrebbe essere definito come una generalizzazione sempre confermata a mezzo di una falsa operazione deduttiva, generalizzazione che può realizzarsi per la estrema genericità ed ambiguità delle caratteristiche o tratti presenti nelle premesse.

Fonte: (Riassunto da) “Psicologo verso la professione” , P.Moderato-F. Rovetto; ed. Mc Graw Hill

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