Nelle sue bellissime memorie (Aniela Jaffè, Ricordi, sogni, riflessioni di C. G. Jung, ed.BUR) Jung racconta di aver iniziato il suo viaggio nell’inconscio quando la seconda metà della sua vita era appena cominciata. Decisivo fu il suo incontro con l’alchimia, che fornì le basi storiche al suo sistema psicologico. Jung racconta come il suo incontro con l’alchimia fu anticipato da alcuni sogni relativi sempre allo stesso argomento.

Di: Dr. Mario Talvacchia
Psicologo e Psicoterapeuta. Scuola Italiana di Ipnosi e  Psicoterapia Ericksoniana (S.I.I.P.E.)

Comunque fu solo dopo aver letto il libro (dal titolo “Il segreto del fiore d’oro”) inviatogli dal suo amico sinologo Richard Wilhem, che egli iniziò a comprendere la natura dell’alchimia. Mentre procedeva con la lettura del libro Jung, di là dall’apparente assurdità dei temi, si rese conto di ritrovare, nell’alchimia, dei simboli di sua vecchia conoscenza.
Notai ben presto che la psicologia analitica concordava stranamente con l’alchimia. Le esperienze degli alchimisti erano, in un certo senso, le mie esperienze, e il loro mondo era il mio mondo……avevo trovato l’equivalente storico della mia psicologia dell’inconscio. Ora essa aveva un fondamento storico (Aniela Jaffè, Ricordi, sogni, riflessioni, pag.250, 1992, BUR).
L’alchimia permise a Jung di collegare le sue esperienze e intuizioni, acquisite grazie alla sua personale “discesa nell’inconscio”, ad un materiale parallelo, oggettivo e disponibile. Jung pose l’accento spesso sull’immenso aiuto fornito dall’alchimia per la comprensione dei processi nevrotici e psicotici. Numerosissimi sono anche i concreti riferimenti alla pratica clinica.
La psicologia analitica, secondo Jung, è una scienza naturale soggetta ai pericoli di pregiudizi quindi, per evitare di commettere errori, è bene restare ancorati a paralleli storici e letterari. L’alchimia rappresentò il ponte verso il passato, verso la remota tradizione gnostica e verso il futuro con la psicologia del profondo. L’alchimia fornì la prova che le sue scoperte psicologiche erano in realtà il ritrovamento d’antichissime ed universali esperienze, che per questo egli definì archetipiche. Jung era consapevole del fatto che non vi poteva essere una psicologia senza l’apporto della storia, soprattutto una psicologia dell’inconscio.
L’alchimia fu intesa da Jung come una disciplina teorico-pratica basata su presupposte corrispondenze, influssi, fra le diverse componenti visibili ed invisibili del cosmo. Il lavoro si proponeva, attraverso complesse operazioni (l’opera alchemica) e attraverso colui che compiva queste operazioni (l’alchimista), di trasformare i metalli “vili”come il piombo, in metalli “nobili”come l’oro. Jung vide l’alchimia come un complesso movimento, forse di natura religiosa, attraverso il quale la pulsione interiore tendente alla trasformazione, alla liberazione della psiche umana dalle tenebre dell’ignoranza, era “proiettata” e vissuta nelle manipolazioni delle sostanze materiali.
La scoperta del fenomeno della traslazione -per cui i contenuti psichici inconsci, non riconosciuti come propri, sono proiettati e vissuti all’esterno, nel mondo- rese più chiara l’opera alchemica. All’interno del laboratorio dell’alchimista, negli alambicchi, al fuoco del forno fusorio si attendeva la manifestazione del frutto di tanto lavoro: l’oro. Il simbolismo alchemico esprimeva, con differenti termini, l’evoluzione della personalità. Gli alchimisti essotericamente (esteriormente) cercavano di trasformare i metalli in oro. In realtà, chiudendosi nei loro laboratori, essi trasformavano se stessi.
Gli alchimisti più seri compresero che lo scopo della loro opera non era la trasmutazione di metalli vili in oro, bensì la produzione di un aurum non vulgi (l’oro non comune) o aurum philosophicum (oro filosofico). In altri termini, ciò che li interessava erano valori spirituali e il problema della trasformazione psichica” (Aniela Jaffè, Ricordi, sogni, riflessioni di C.G.Jung, pag.256).
Erano convinti che la trasformazione del loro spirito producesse il cambiamento della materia. All’interno del suo studio, l’alchimista, veniva a contatto con l’inconscio, anche se sul piano della realtà materiale egli trafficava con la materia, alla ricerca dell’oro. Per Jung l’opera alchemica nel suo complesso riguardava la natura della psiche, quello che avveniva era un processo psicologico di trasformazione, piuttosto che la ricerca dell’oro. Durante il laborioso processo di creazione della “pietra” si attuavano proiezioni psichiche che portavano alla luce i contenuti inconsci, spesso perfino in forma visionaria.
La complicata e infinita simbologia alchemica non faceva altro che descrivere, in modo figurato, il processo di trasformazione della psiche e i relativi stadi di tale percorso, dal sonno al risveglio psichico.
Jung vide in questo simbolismo un’immagine di ciò che lui stesso aveva definito come processo di individuazione, una graduale trasformazione ed evoluzione della persona da uno stato di incoscienza ad uno di coscienza, ed il relativo processo di guarigione che spesso l’accompagna.
Per Jung l’animo umano alberga una naturale pulsione a realizzarsi, una spinta verso la realizzazione della piena personalità. Egli chiamò questa pulsione “l’archetipo dell’individuazione”, un lungo e duro cammino alla ricerca del “se’”.
” Occupandomi delle mie fantasie, cominciai a supporre che l’inconscio si trasforma o determina trasformazioni. Solo dopo che l’alchimia mi fu divenuta familiare capii che l’inconscio è un processo, e che la psiche si trasforma o si sviluppa a seconda della relazione dell’io con i contenuti dell’inconscio……..Attraverso lo studio dei processi individuali e collettivi di trasformazione, e grazie alla comprensione del simbolismo alchimistico, pervenni al concetto centrale della mia psicologia: il processo di individuazione “(Aniela Jaffè, Ricordi, sogni, riflessioni di C.G.Jung, pag.254-255, BUR, 1992).
Possiamo affermare che Jung fece della trasformazione alchemica il modello della trasformazione psicologica da lui chiamata processo di individuazione. Grazie alla sua pratica clinica, all’esame delle fantasie e dei sogni dei suoi pazienti, Jung mostrò come alcuni motivi archetipici che ricorrevano nell’alchimia comparivano pure nei sogni delle persone moderne, che non avevano alcuna conoscenza dell’alchimia. Quindi il mondo dei simboli alchemici non appartiene solo al passato, ma si trova in rapporto vitale con le più recenti scoperte e conoscenze della psicologia dell’inconscio.
La condizione iniziale del lavoro alchemico è lo specchio della psiche embrionale che si avvia alla trasformazione. Sappiamo l’importanza che riveste, nell’opera alchemica, la materia prima che rappresenta la sostanza sconosciuta sulla quale è proiettato il contenuto psichico autonomo. Inizialmente ci troviamo di fronte ad una situazione caratterizzata da una lotta caotica tra tendenze e forze contrapposte. L’alchimista o il terapeuta dovrebbe essere in grado di ricondurre nuovamente ad unità gli elementi e le proprietà tra loro ostili, che dapprima erano stati separati. L’essenza del lavoro sta da un lato, nella separazione e nella soluzione e dall’altro, nella combinazione e nella coagulazione.
Possiamo affermare che la filosofia alchemica della natura ha considerato gli opposti e la loro unione uno degli oggetti principali della sua opera.
La separazione degli elementi ostili corrisponde allo stato iniziale di caos e di tenebre. Sul piano psichico possiamo parlare di una coscienza primitiva. La conquista dell’arte corrisponde allo stadio finale caratterizzato dalla combinazione degli elementi e dalla sintesi finale. Sul piano psichico tutto ciò corrisponde ad un processo d’autoconoscenza.
L’entità in cui avviene l’unione, l’armonizzazione psichica degli opposti, l’unità interiore, è quell’istanza che in termini psicologici Jung ha chiamato sé. Il sè dovrebbe comprendere l’insieme dei fenomeni psichici di un individuo. In questa accezione il sé può essere visto come simbolo dell’unità della psiche. Il sé esprime, qui, una congiunzione dove il conflitto degli opposti può trovare pace.
Gli alchimisti, in principio, percorrevano la via della nigredo, termine latino che sta per neritudine, nero. In termini junghiani questo corrisponde alla ricerca dell’ombra.
Proprio la condizione d’estrema solitudine permette l’incontro con il lato oscuro di noi stessi. Ciò che abbiamo biasimato negli altri lo ritroviamo proprio dentro di noi (Jung consiglia, a chi volesse saperne di più sulla propria ombra (lato oscuro della personalità), di scrivere un elenco di cose che non gli piacciono negli altri).
Durante questo periodo d’intensa solitudine si possono produrre dei delirii e può verificarsi l’emersione d’immagini non solo personali ma anche collettive. I contenuti dell’inconscio personale (come l’ombra) sono collegati in modo indistinguibile con i contenuti archetipici dell’inconscio collettivo quindi, quando l’ombra diventa cosciente, essi in un certo qual modo portano a galla anche quelli. La vivificazione degli archetipi può provocare un effetto perturbante sulla coscienza. L’incontro con il nero è la prima scoperta di ciò che non ci piace. Durante il processo del trattamento psichico bisogna per forza confrontarsi con la propria ombra, con quella parte oscura dell’anima della quale ci si sbarazza di volta in volta mediante le proiezioni. Tutto ciò che è ignoto e vacuo è riempito da proiezioni psicologiche.
Sul piano letterario Robert Luis Stevenson ha messo in luce la scoperta dell’ombra nel suo libro “Lo strano caso del Dr. Jekyll e del Sig. Hide”.
Da un lato la gentilezza e cordialità del Dr. Jekyll, dall’altro la cattiveria e la violenza del Sig. Hyde. In tutto il romanzo è splendidamente messo in luce il meccanismo di proiezione della seconda personalità, quella malvagia. Tutto il romanzo poggia sul dualismo, tra bene e male, che corrode l’animo umano.
Sembra che l’aver dato corpo al suo fantasma abbia conferito a Stevenson una maggiore leggerezza.
Allo stesso modo E. T. A. Hoffman, nel suo racconto “Gli elisir del diavolo”, sembra anticipare il concetto junghiano di ombra. Il monaco Medardo proietta la sua parte malvagia, la sua ombra, su di un altro individuo. Solo dopo aver accettato le proprie colpe e reintegrato in sé l’ombra arriverà ad un grado di maggiore integrazione e sviluppo della propria personalità.
L’emersione del nero è un momento importante del lavoro alchemico e della analisi. La conoscenza dell’ombra può essere sufficiente a causare una buona dose di confusione e di obnubilamento, dal momento che essa fa emergere componenti individuali di cui prima non si era avuto il minimo sentore. Per questo gli alchimisti hanno definito la loro nigredo come melanconia, nero più del nero, notte, afflizione dell’anima. Gli alchimisti si servono di bellissime immagini che accennano l’incontro con l’ombra.
Lungo il suo cammino l’alchimista non ha un partner, è solo, e chiudendosi in se stesso si accorge che il confine tra la psicosi e l’individuazione è molto labile. Durante il lavoro pratico possono verificarsi percezioni allucinatorie o visionarie che non possono essere altro che proiezioni di contenuti inconsci.
Anche nell’immaginazione attiva (tecnica scoperta da Jung e metodo da lui prediletto per interrogare l’inconscio, oltre che a sviluppare l’immaginazione del paziente durante la psicoterapia) si comprende la labilità di questo confine, come Jung stesso fece. È chiaro che il concetto di immaginazione è sicuramente una delle chiavi più importanti per comprendere l’opera alchemica.
Quando il soggetto si isola vengono fuori tutti i fantasmi, c’è la possibilità che si verifichi l’inflazione dell’inconscio. Jung avverte del pericolo di un’inflazione psichica dell’inconscio, e del rischio che l’io corre di annegare nell’oceano dell’inconscio collettivo.“Finchè l’alchimia si affaccendava nei laboratori, si trovava in una condizione psichica favorevole: l’alchimista non aveva certo la possibilità di identificarsi con gli archetipi che via via affioravano, in quanto essi erano proiettati tutti nella materia chimica” (C.G.Jung, Psicologia e alchimia, pag.40).
Si può andare avanti nel percorso solo se il soggetto non è schiacciato da tutto il peso dell’inconscio.

Nei sogni, ad esempio, l’immagine dell’ombra è rappresentata dalla assenza di volto, l’ombra è una figura senza volto di cui il soggetto non si ricorda. Il nero è lo sconosciuto che è nostro nemico, ma solo fino a quando non lo conosciamo (questo accade anche negli incubi).
La prima fase del processo alchemico è dunque caratterizzata da una estrema confusione, da frustrazione e da una certa depressione. Tuttavia questo stadio contiene tutte le potenzialità e i semi di un futuro sviluppo.
Nel primo stadio ci troviamo subito di fronte allo sconosciuto, a ciò che non è cosciente. Si potrebbe anche riuscire nel compito di conoscere l’ombra, facilitando così il ritiro delle proiezioni spontanee di cui ci siamo serviti per modellare la realtà che ci circonda, e allo stesso tempo l’immagine del nostro carattere.
Questo processo, tendente a strappare alla realtà i veli dell’illusione, non è impresa che sia avvertita come piacevole ma piuttosto come penosa e dolorosa.
Ad un certo punto del percorso può capitare che il soggetto comprenda che tutto ciò che proiettava negli altri era qualcosa di suo. Solo quando il soggetto impara ad accettare i lati oscuri di se, solo allora, può verificarsi “l’emersione del sole”.
Quando il fuoco dell’alambicco, il fuoco psichico, purifica gli elementi si produce la seconda fase, si entra in ciò che gli alchimisti chiamavano albedo. È lo stadio di chiarificazione e d’intensificazione della vita e della coscienza. Sorge la luce della coscienza e della conoscenza.
Con ciò era raggiunta la prima meta principale del processo, l’alba, meta che certi autori credevano si trattasse della meta definitiva. Per molti alchimisti era arrivato il momento di fermarsi, non volevano andare più avanti. Sul piano psicoterapeutico sembra di essere arrivati ad un punto morto. Con l’albedo nasce una luce che può arrivare dopo un periodo di depressione molto grave. L’analisi può rappresentare l’uscita da questo nero.
L’albedo può essere anche la scoperta dell’altro sesso, dopo aver vissuto un periodo di depressione “nera e del nero” viene fuori l’immagine dell’altro. Ognuno di noi alberga una seconda personalità del sesso opposto e si può scoprire che i rapporti con gli uomini (nella donna) e con le donne (negli uomini) erano centrati su di un’immagine fantasmatica dell’altro. Possiamo capire che non si è mai stati in contatto con l’altro, ma con la sua immagine che abbiamo dentro.
Queste immagini Jung le chiama anima (immagine interiore femminile, nell’uomo), e animus (figura interiore maschile, nella donna).
Un uomo condizionato dall’anima, ad esempio, rischia di non scorgere l’altro per colpa di un innamoramento fasullo. Quando scopriamo l’anima possiamo ritirare tutte le proiezioni, sapendo che nell’altro abbiamo visto per es. nostra madre o le nostre sorelle. Tutto ciò contribuisce ad arricchirci.
Se il processo si protrae ancora questo biancore della luce della coscienza può diventare il rossore della rubedo. Siamo arrivati allo stadio del rosso, del rossore. Potremmo scoprire il processo alchemico della coniunctio, trovare la pietra filosofale. L’unione finale, la più elevata, era per gli alchimisti l’unione dell’essere umano con l’unus mundus.
Siamo giunti all’ultima fase, quella del sole rosso, che potrebbe farci scoprire il sé.
Il sé non è soltanto il punto centrale, ma anche l’estensione che comprende la coscienza e l’inconscio; è il centro di questa totalità, come l’io è il centro della coscienza” (C.G.Jung, Psicologia e Alchimia, pag.45).
Il viaggio notturno del sole nel mare è terminato.
Tale scoperta è supportata dall’emersione d’altri archetipi. Jung era convinto che ogni archetipo, finchè rimaneva inconscio, s’impossessasse dell’uomo nella sua totalità e lo inducesse a vivere la parte o il ruolo corrispondente. In questa fase, insomma, viene fuori la totalità, e nell’uomo esiste la possibilità di percorrere un processo del genere.
Quest’ultima fase mette in luce il problema centrale della psicologia junghiana: l’incontro della coscienza con l’inconscio. Il tema dell’unione degli opposti ricorre in tutta la letteratura alchemica. Notevole importanza riveste il materiale simbolico, materiale che è strettamente connesso con il processo d’individuazione.
Tutti i quadri alchemici mostrano l’idea della simmetria, dell’incontro e unione degli opposti. L’immagine dell’uroboros, del serpente che si morde la coda è una di quelle rappresentazioni atte a mostrare l’unione della coscienza con l’inconscio.
L’uroboros è il serpente che è capace di morire e rinascere continuamente.
Queste rappresentazioni mostrano il rapporto tra due parti differenziate come la coscienza e l’inconscio, la depressione e la rinascita. In queste immagini speculari, una realtà si trova insieme ad un’altra.
Un altro simbolo che rappresenta l’unione e il tutto è il mandala. Mandala (sanscrito) potrebbe essere reso come cerchio, cerchio magico. Questo simbolo, prodotto dalla cultura indo-tibetana, fa parte delle immagini dell’inconscio collettivo. Secondo Jung il mandala è l’immagine del sé, della totalità.
Il mandala ci da l’idea della completezza più che della perfezione. Tutta la psicologia junghiana poggia sul programma dell’individuazione che fa sì che l’inconscio e la coscienza si incontrino sullo stesso piano.
Tutta la psicologia junghiana si regge sull’idea di due forze, idea riscontrabile anche nella cultura cinese. L’idea dell’unione, della totalità, è data anche dal vaso alchemico, costituito essenzialmente dall’alambicco o dal forno fusorio, vaso come recipiente delle sostanze che devono subire il processo di trasformazione. Il vaso è il contenitore dentro il quale due elementi (immersi nell’acqua) s’incontrano; il maschile si unisce al femminile. Da quest’incontro nasce un figlio, simbolo della rinascita. Per gli alchimisti il vaso è qualcosa di assolutamente meraviglioso.
Jung si preoccupa di descrivere le fasi della sua terapia durante la quale il confronto tra due opposti è inevitabile, lo stesso confronto tra due forze che ritroviamo raffigurato in ogni quadro alchemico. Le stesse immagini, gli stessi motivi, abbondano anche nelle fiabe.
Secondo Jung l’alchimista non conosceva la vera natura della materia. Egli tentando di indagarla, di illuminarla, proiettava sull’oscurità della stessa materia l’inconscio. Questo processo non era un qualcosa d’intenzionale, ma un accadimento involontario. Durante l’opera l’adepto viveva certe esperienze psichiche che gli apparivano come trasformazioni chimiche. Poiché si trattava di proiezioni egli non ne aveva coscienza. Le radici dell’alchimia, dunque, vanno ricercate nelle esperienze di proiezione dei singoli indagatori.
Infine si potrebbe affermare che il lavoro alchemico oltre a rappresentare un serio tentativo di penetrare nell’essenza delle trasformazioni chimiche, era anche la rappresentazione di un processo psichico parallelo, inconscio, che poteva facilmente essere proiettato nella chimica sconosciuta della materia. Nel simbolismo alchemico trovò espressione quella misteriosa trasmutazione psichica che Jung chiamò processo di individuazione.
Come scrive Jung stesso, solo nella dolorosa oscurità dell’anima umana: ”Soltanto là si possono trovare tutte quelle contraddizioni, quei grotteschi fantasmi e quei simboli osceni che avevano affascinato lo spirito dell’alchimia, fonti di turbamento e al tempo stesso di illuminazione. E allo psicologo si pose lo stesso problema che già aveva assillato gli alchimisti per millesettecento anni: che fare di tali forze antagoniste? È possibile rifiutarle e sbarazzarsi di loro? Oppure occorre riconoscerne l’esistenza ed è nostro compito portarle ad armonizzarsi, cercando di realizzare un’unità”. (C.G.Jung, Mysterium Coniunctionis, pag.553).
Quindi gli alchimisti erano molto vicini alla verità dell’anima nei tentativi di liberare lo spirito dagli elementi chimici. Ma il mistero era ancora fuori di loro. Solo l’evoluzione della coscienza ad un livello superiore poteva eliminare le proiezioni e ridare alla psiche ciò che gli apparteneva fin da principio.
Oggigiorno siamo effettivamente in grado di scorgere in che modo l’alchimia abbia preparato la strada alla psicologia dell’inconscio: da un lato lasciando in eredità, senza volerlo, nella messe dei suoi simboli, un insieme di rappresentazioni simboliche che si rivela di inestimabile valore per i metodi di interpretazione moderni; e, dall’altro, indicando con l’intenzionale ricerca di una sintesi procedimenti simbolici che riscopriamo nei sogni dei nostri pazienti. Oggi possiamo vedere come l’intero processo alchemico volto alla unificazione degli opposti può rappresentare anche l’itinerario di un singolo uomo verso l’individuazione, con la differenza non trascurabile che un individuo non potrà mai uguagliare, nella sua produzione simbolica, la ricchezza e l’ampiezza dei simboli dell’alchimia” (C.G.Jung, Mysterium Coniunctionis, pag.553-554).

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